Se il Maggiore Angelo Angelucci * potesse leggere queste modeste righe e, soprattutto, il titolo dato a questo breve studio su un’arma peraltro di interesse estremo sia per l’epoca che per la particolare tipologia, avrebbe subito qualcosa da ridire.
Nonostante infatti sia invalsa da più di un secolo (v. Jacopo Gelli, Guida al raccoglitore delle armi antiche, Milano, Hoepli,1900) una terminologia corrente che per associarne l’immagine mentale con la funzione alla quale erano precipuamente dedicati identifica come pugnali smagliatori una tipologia di pugnali ideati per svellere gli anelli della cotta di maglia di ferro con la quale si proteggevano gli armati intorno ai secoli dal XI al XIV della era nostra - quell’illustre cultore della storia delle armi antiche , rigoroso purista che già lamentava che tale sostantivo non fosse riportato né dalla Crusca né in altri vocabolari “perché i compilatori tolgono voci ed esempi dai classici e non vanno,per non perdere tempo, a scuoter la polvere dai vecchi codici negli archivi”, segnalava che il termine corretto ed antico (fin dal XVI secolo !) per identificare tale tipo di arma era -ed è , in realtà- sfondagiaco, perché il “giaco” era appunto denominata, in antico, una protezione difensiva (in pratica una camicia di maglia che copriva busto e braccia ed il corpo sino a metà delle cosce) caratterizzata dall’intreccio di anelli di ferro –negli esemplari migliori e più costosi, acciaioso- variamente connessi fra loro (un anello che poteva esser di sezione circolare o romboidale ne congiungeva ordinariamente altri quattro, ma la struttura poteva esser più complessa), che ben si adattava alle fattezze di ogni armigero e poteva persino essergli realizzata su misura, proprio come un abito.
In realtà la maglia di ferro aveva origini
antichissime. Ne facevano uso i persiani e i celti, nè era disdegnata dai
romani, che nonostante prediligessero le loriche in cuoio cotto , bronzo o a
lamine ferree, ne fecero tuttavia anch’essi grande uso, tanto che fino dal I
secolo A.C. parte dei legionari
utilizzava questo tipo di armatura ( e se ne trovano raffigurazioni anche sulla
colonna traiana, indossate da ausiliari).
L’alto medio evo l’aveva vista scomparire
dall’uso comune, mentre aveva recuperato gradimento già intorno al IX secolo,
con i cavalieri dell’esercito carolingio, e già risulta ben documentata nell’arazzo di
Baeux (Battaglia di Hastings,1066) prima
ancora di ottenere una più generale
diffusione in occasione della prima crociata essendosene rimarcata la praticità
da tempo scoperta, in quei climi, dalle popolazioni e tribù arabe che i crociati si trovarono ad
affrontare, per poi infine giungere al periodo di massimo utilizzo
, che possiamo orientativamente collocare fra i secoli dall’ XII al XIV.
Invalso nel XV secolo l’uso di pezze difensive
più protettive che rivestivano interamente l’armato di una serie di funzionali
ed articolate lastre metalliche impenetrabili da semplici pugnali, sopravvisse solo
come accessorio utile ad integrarne i vuoti, in particolar modo sotto le
ascelle e nella piegatura delle braccia, a proteggere le reni in caso di
mancanza di guardareni nonché, per
intuitiva praticità, a supplire la eventuale mancanza della braghetta rigida.
L’arma -lo sfondagiaco, quindi-
si sviluppò e vide il proprio declino di
pari passo al mutare delle tipologie di tale sorta di protezioni del corpo.
Ben nota in tutto l’occidente cristiano tanto da esser nomata brise-cuirasse in Francia, rompe-corazas in Spagna, spitz dolch in Germania e, naturalmente, sfondagiaco in Italia (tali
denominazioni geografiche sono puramente indicative) l’arma è caratterizzata dall’avere una corta e robusta lama, ordinariamente a sezione
quadrata o triangolare, dalla punta acutissima, ideale per insinuarsi senza
difficoltà fra anello ed anello ed aprirsi un varco fra gli stessi, con azione
meccanica di cuneo, fino a giungere al corpo dell’avversario per ferirlo o
finirlo, se già abbattuto.
A volte , più spesso negli esemplari più tardi, la lama era ingrossata in punta (ringrosso) proprio per potenziarne la
capacità penetrante fra le maglie di ferro.
Per la funzione cui era specificamente
deputata (anche se è certo che poteva benissimo funzionare come un normale
pugnale!) è quindi comprensibile come il periodo di
massimo utilizzo di tal sorta d’armi debba collocarsi anteriormente al XV
secolo, dacché il sistema di ricoprire cavalieri ed armati con pezze d’armatura
costituite da lastre metalliche rese praticamente inutile, già a decorrere
dalla metà di quel secolo, quel certo tipo di
armamento per il combattimento ravvicinato essendo allo scopo assai più
utili le micidiali asce, le mazze ferrate, e, in particolare, i martelli d’arme
caratterizzati da una minacciosa punta a
forma di piccone idonea a sfondare anche le corazze più resistenti, le lunghe alabarde, tutta la varia tipologia
delle armi in asta, a tacere poi delle insidie derivanti dalla sempre maggior
diffusione di balestre ed armi da fuoco.
Sta di fatto, quindi, che se si parla di sfondagiachi e della loro “epoca d’oro” occorre risalire , nel
tempo, a non più tardi dell’ultimo quarto del XIV secolo.
Ed è probabilmente a questo periodo che va ascritto il raro pugnale (più
propriamente, coltello, visto che la lama è ad un solo filo, ma l’uso per il
quale fu costruito mi legittima, da qui innanzi, a definirlo appunto come pugnale) conservatosi per quanto il lungo scorrere del tempo ha consentito –ma è
già straordinario averlo ritrovato integro- illustrato dalle fotografie a
corredo dell’articolo.
Tale pugnale “smagliatore” (usiamo
anche questo “neologismo”, con buona pace dell’Angelucci, ad evitare
ripetizioni) è particolare per il fatto che è caratterizzato da una lama,
ancora acutissima, di sezione triangolare – che è il tipo di sezione meno
consueto- e da pomolo e crociera realizzati in metallo nobile , probabilmente
bronzo che, come tale, si è potuto salvare dalla corrosione.
Si è disquisito a lungo sulla funzione di alcune caratteristiche di pugnali consimili, tipici anche per le grandi orecchie (valve) che ne costituivano il pomolo.
Personalmente ritengo evidente la funzione sia
della crociera , assente nei coltelli di uso domestico (come ben si vede nella
pittura e nei codici miniati dell’epoca, dovunque siano raffigurati banchetti) sia del
pomo, le cui forme rispondano pienamente
all’uso che da tali armi si pretendeva: quello di sfondare con un forte colpo
diretto una barriera di anelli di ferro
(onde la crociera oltre che protezione della mano in caso di scontro costituiva
anche appoggio aggiuntivo per il pollice e l’indice) e, nel contempo, quello di
poter far buona presa sul pomolo, stringendo forte il pugno, allorché probabilmente con un
certo sforzo si fosse dovuto ritrarre il
pugnale dalla morsa degli anelli di ferro dopo averli squarciati, onde poter
rapidamente riprendere la posizione di
combattimento visto che una ferita prodotta con tale arma raramente avrebbe
potuto ritenersi mortale ove non diretta al cuore o alla parti vitali della
gola e del collo del malcapitato che l’avesse ricevuta in corpo.
Si ricorda, al proposito, l’episodio narrato nella
sua “Vita” da Benvenuto Cellini, che
di armi aveva certamente esperienza. Quando, dopo aver inseguito e raggiunto l’archibugiere che aveva colpito
il fratello ad un ginocchio causandone la morte per dissanguamento ed averlo pugnalato violentemente al collo
con un pugnale “pistolese” (“Io
con gran destrezza me gli accostai con un gran pugnal pistoiese….”per
alcuni versi, simile nell’impostazione concettuale dell’impugnatura ad uno
sfondagiaco, con appoggio per il pollice e pomolo di generose dimensioni:
basti vedere le raffigurazioni di “sfondagiachi” riportate dal Gelli nel
suo prezioso volumetto per notarne le similitudini !) , non riuscì poi ad
estrarlo più dalla ferita , tanto che finisce per commentare:…..“entrò tanto dentro il pugnale che io sebben
facevo gran sforzo di riaverlo non
possetti”.
D’altronde, anche stando alla descrizione che l’Angelucci fa di uno dei soli quattro sfondagiachi conservati nell’Armeria Reale di Torino : “il codolo che a mano a mano si slarga dal tallone in modo che alle estremità vi si possa situare il pollice per vibrare a soprammano fortemente i colpi”(Armeria Reale , Cat. H 84, pag.325) pare che il pollice potesse quindi essere usato sia per aumentare la forza di spinta che nel contempo per frenare il contraccolpo al momento dell’impatto, a maggior ragione in quei tipi di sfondagiaco il cui pomo si apre in due alette bivalvi.
Alcune fotografie di armi della medesima epoca passate in anni non
recenti alla casa d’aste Fischer di Lucerna consentono di individuare alcune
simiglianze, se non altro per una pur vaga “assonanza”.
All’epoca doveva invece essere oggetto in gran voga , tanto che , almeno in un caso a me noto, la sua inconfondibile sagoma venne usata addirittura come marchio per contraddistinguere le armi realizzate da un armaiolo del quale non sono purtroppo riuscito ad identificare la zona d’origine. In una faccia del ferro di una partigiana del XV secolo, ottimamente conservata, le cui ridotte dimensioni (rispetto a quelle medie di una ordinaria partigiana di pari epoca , ma anche in questo caso …si fa per dire, visto che il solo ferro misura 51 cm oltre l’immanicatura!) e l’assenza di alette potrebbero addirittura consentire di ascriverla alla famiglia degli spiedi da guerra (si pensi agli spiedi alla bolognese*) l’armaiolo stampigliò un fantastico e nitidissimo punzone che rappresenta nientemeno che un piccolo , distinguibilissimo sfondagiaco.
Particolare Qualche analogia tipologica può inoltre rintracciarsi
nella documentazione pittorica e fotografica selezionata a corredo del presente
articolo, mentre è interessante notare che nella descrizione che il già citato
Maggiore Angelucci fa dei quattro sfondagiachi inventariati nell’Armeria Reale
di Torino uno risulta avere la lama a sezione di triangolo isoscele , proprio ed
esattamente come è la sezione della lama di quello oggetto delle
presenti note.
Quanto al periodo nel quale
collocare questo cimelio dell’epoca dei cavalieri, riterrei quindi assai probabile
l’ultimo quarto del XIV secolo a motivo del pomolo caratterizzato da un rilievo
centrale e della presenza dei baffi spioventi della crociera con tanto di
accenno ad un ricciolo finale, che portano già ad avvertire un sentore di più
raffinati stilemi appena prequattrocenteschi,
mentre stando alla rusticità della “moda” invalsa nei precedenti secoli XII e
XIII, tali particolari costruttivi erano caratterizzati, almeno nelle spade, da
crociere tipicamente dritte, perfettamente ortogonali alla lama, e da pomi esclusivamente lenticolari o sferici
semplicemente appiattiti.
La somiglianza è indubbiamente notevole; certo che data la
rarità anche delle fonti iconografiche non è facile datare con esattezza l’
arma oggetto di questa breve analisi, che potrebbe pertanto essere di epoca anche più antica di quanto ipotizzato.
Gaetano D. Rossi, fondatore di ARIES
- *Incaricato dalla Real Casa Savoia di redigere il
Catalogo dell’Armeria Reale di Torino.Il Catalogo fu edito per i Tipi di
“Tipografia editrice G. Candelotti, ,via della Zecca, 11 Torino, nel 1890
e costituisce uno dei documenti
fondamentali per lo studio
delle armi antiche ivi conservate.
- **Mario
Troso: Le armi in asta delle fanterie europee(1000-1500) De Agostini,1988
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