Breve storia del Passatore

 





 




Vita ed imprese di Stefano Pelloni detto il Passatore, il temibile bri­gante che per anni terrorizzò le Romagne, invano ricercato dalla gen­darmeria e dai sussidiari delle quattro legazioni pontificie.                   
                                                   
Romagna solatia, dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.
(Giovanni Pascoli : Romagna)
****
Non esiste certamente personaggio romagnolo più noto del Passatore; molto si è parlato e scritto su di lui e della sua banda, delle imprese che sanno di fantasia popolare ma che rispondono invece ad incredibile realtà.
I racconti delle sue mirabolanti gesta  giunsero fin dall’epoca persino ad orecchio di Giuseppe Garibaldi, quando, in fuga dopo il dissolvimento della Repubblica Romana, passato per San Marino e fortunosamente imbarcatosi a Cesenatico, sbarcato poi nelle paludi comacchiesi venne vanamente inseguito attraverso le terre di Romagna dai gendarmi papalini e dagli austriaci che davano la caccia al Passatore per conto del Papa. Riuscito ad evitare la cattura percorrendo probabilmente quegli stessi sentieri utilizzati dalla banda del Passatore per eluderne la caccia, così scriveva nell’ottobre del 1850 dal suo volontario esilio newyorchese:  "Le notizie del Passatore sono stupende... Noi baceremo il piede di questo bravo italiano che non paventa, in questi tempi di generale paura, di sfidare i dominatori"…
     Nonostante tale fama e l'immagine poetica che lo definisce quindi …"corte­se", il Passatore era in realtà un brigante spietato capace tuttavia anche di slanci generosi, persino sotto il profilo umano; cosicché, dandosi per tradizione prevalenza a questi soli ultimi, la vulgata popolare ha finito per consegnare di lui una figura positiva, di fatto in totale con­trasto con la realtà.
 C’è da dire che l'alone romantico che lo circonda ed il segreto affetto nonché la nascosta ammirazione che ogni romagnolo che ne ricordi le gesta nutre in cuor suo per questo brigante nascono forse dal fatto che "Stuvanì" rapinava sì qualche ricco mercante o possidente, uccideva sì di tanto in tanto qualche povero disgraziato che aveva la sfortuna di non essergli gradito, ma soprat­tutto e prima di tutto, era infatti il nemico giurato delle guardie papaline, “la Forza” come si diceva all’epoca, che in Romagna -terra storicamente turbolenta, si sa- non ha mai attirato su di sé molte simpatie ed il cui ricordo pare esser rimasto molto più sgradevole che non quello del Passatore stesso.
Questa sorta di Robin Hood della bassa romagnola, annoverato quindi nella tradizione popolare come colui che rubava ai ricchi per dare ai poveri, che sanava ingiustizie, che vendicava i più umili dall'opprimente governo papalino faceva realmente tutto ciò ma solo quando gli conveniva: pagava i poveri quando aveva necessità di un rifugio sicuro, uccideva le spie della Forza quando potevano danneggiarlo, derubava i possidenti senza troppo dolore della popolazio­ne disagiata che forse vedeva in ciò una sorta di vendetta e di ribellione ad una condizione sociale di povertà e di miseria oggigiorno difficilmente immaginabile. Ricordiamo però che contemporaneamente derubava ed uccideva poveri contadini, bruciava raccolti, tagliava viti portando ulteriore indigenza e disperazione dove certamente non mancavano. Questi aspetti contrastanti di storia vera e di fantasia popolare si fondono nel racconto della vita del Passatore e delle sue mirabolanti gesta, celebrati da molti scrittori il più conosciuto dei quali è stato Francesco Serantini, la cui opera più famosa ha visto ben tre edizioni, dalla prima del 1926, a quelle del 1973 e del 2004.
 
                           


 
In realtà Stefano Pelloni “passatore” lo era già anche prima di diventar bandito: traghettava infatti persone e cose con una piccola barca attraver­so il Lamone in località chiusa di Marcabò, in parrocchia di Boncellino di Bagnacavallo.
"Stuvanì de barcaròl..."così inizia una vecchia ballata popolare che canta le gesta e la morte del Passatore. Tradizione di famiglia quindi, anche se il padre aveva pensato in un primo tempo di fare del piccolo Stefano un  prete, cosa che allora andava per la maggiore e che avrebbe assicurato tranquillità economica e sociale a tutta la famiglia. Ma l’interessato non era di questo parere; sin da piccolo era sveglio abbastanza da scegliersi una vita libera anche se difficile.
Cresciuto in un modestissimo ambiente, Stefano, nato il 4 agosto del 1824, era uno dei tanti giovani con avvenire senza speranza e con la prospettiva di una misera esistenza scandita da impenetrabili nebbie invernali e tremende calure estive allietate da nugoli di voraci zanzare; uniche distrazioni qualche ballo, qualche messa e qualche funerale e non è cambiato molto da allora nella "bassa".
La nostra breve storia inizia da uno di questi balli campestri quando, benché già da tempo avesse avuto noie con la Giustizia per la sua spiccata tendenza al brigantaggio-che l’attività di barcaiolo non lo attirava molto-, la vita di Stefano prese una diversa piega. Quel giorno infatti, nata una rissa furibonda per motivi non chiariti, una pietra da lui lanciata con forza nei confronti di un coetaneo andò a colpire malauguratamente una donna incinta che era poco lontano la quale abortì e dopo qualche giorno, essendo insorta febbre violenta, ne morì. 
 Stuvanì fu arrestato, tradotto in carcere, processato c condannato a tre anni di reclusione con una rapidità che di fronte alla odierna magistratura sa di fantascienza.
Mentre scontava la pena nel carcere di Bagnacavallo riuscì ad evadere e si dette alla macchia. Correva l’anno 1849. In quell'anno si costituì una banda per la prima volta sotto il suo diretto comando. Gli si raccolsero intorno individui dediti al brigantaggio per le più varie ragioni e già appartenenti ad altre bande, trovando in Stefano Pelloni il capo ideale delle loro losche imprese. Astuto come una volpe, robusto nonostan­te che l'immagine tramandataci da una vecchia stampa possa non farlo ritene­re tale, divenne ben presto il naturale capo di una masnada forte di una venti­na di briganti sbandati dai soprannomi variopinti, indicativi delle singole tendenze : Mattiazza il sanguinario, Dumandone, Giazzolo -il prediletto del Passatore-, Lazzarino, il giovanissimo vicecapo, "Magnabiscie, Tizzone, Gallet­to, il Gobbo, Sborraccino, Schivafumo. Insieme a costoro e con altri che saltuariamente ed in periodi di­versi si unirono alla banda, iniziò la sua attività, interessando fra il 1849 ed il 1851, anno della sua morte, il territorio delle quattro legazioni ponti­ficie di Forlì, Ravenna, Ferrara e Bologna, nonché l'alto appennino modiglianese attraverso il quale la banda trovava spesso rifugio ospitale nel vicino Grandu­cato di Toscana.
Se l'episodio più famoso fra le gesta del Passatore fu la presa di Forlimpopoli, molte altre imprese meno note ma non meno rilevanti lo precedet­tero, qualificando ben presto la famigerata banda quale le più pericolosa e temibile di tutte le Romagne.
Diverse cittadine furono infatti occupate e saccheggiate fra il 1849 ed il 1851: Bagnara il 16 febbraio 1849, Castel Guelfo e Cotignola nel gennaio del 1850, dove il Passatore uccise di sua mano tal Giuseppe Bandi e ferì gravemente tal Filippo Tamburini accoltellandoli e gettandoli da un ponte nel sottostante rivo; Brisighella  il 7 febbraio 1850,  Longiano il 28 maggio 1850, dove il medesimo uccise sempre di sua mano il sussidia­rio (sorta di milizia civile) Domenico Scalpellini e dove furono uccisi tal Giannini calzolaio e  tal paolo Gorri con un bottino totale di 6643 scudi. Da voce raccolta in loco pare che costoro, rifugiatisi in uno stallatico, furono scovati sotto alcune fascine e passati per le armi. Sulla via del ritorno da tale azione fu ucciso dal Passatore e per motivi non chiariti tal Lorenzo Lombardi canapino di Meldola; il suo cadavere fu bruciato su di una pira ed i briganti, stando ad un documento dell'epoca, "vi fecero intorno tripudi”. Il 9 gennaio 1851 toccò a Consandolo, ove furono uccisi il Dott. Vincenzo Salvatori che aveva opposto resistenza e tal Domenico Roversi; qui però il Passatore non partecipò ai misfatti e non fu nemmeno presente avendo dele­gato all'impresa i due sanguinari sottocapi Lazzarino e Mattiazza.  Naturalmente neppure le dili­genze erano al sicuro dai briganti: il 20 luglio 1850 fu assalita la diligenza di linea fra Bologna e Ferrara nei pressi di Altedo con un bottino di 1100 scudi; il 23 agosto toccò a quella per Roma nei pressi di Santarcangelo con oltre 2000 scudi di bottino.


                        
L’elenco delle imprese potrebbe continuare per molto, enumerando casi di assalti, ruberie, taglieggiamenti omicidi. L’azione più importante però, quella che si ricorda ricollegandola istantaneamente alla figura del Passatore, fu quella della presa di Forlimpopoli e questa senza dubbio merita di essere raccontata per intero.
Verso le otto di sera del 25 gennaio 1851 dopo che una pattuglia di gendarmi era uscita in perlustrazione, il custode di una delle tre porte della cit­tà, la porta Forlivese, sentì bussare ripetutamente .  "E’ la Forza che vuole entrare!" disse una stentorea voce dal di fuori. Ingenuamente aprì i battenti e si vide spianate contro le canne di alcune “schioppe” (così si dicono in Romagna le doppiette) di cui una a quattro canne come ebbe poi a riferire al  Maggiore Aliai che condusse le indagini.
Fu così che con relativa facilità la banda del famigerato Passatore forte di una quindicina di uomini penetrò nel paese.
Prima tappa dei briganti fu la caserma dei gendarmi dove trovarono appena due militi che furono immobilizzati e costretti a seguirli;  tutte le armi della Forza furono gettate sulla piazza dal primo piano dell’acquartieramento per renderle inutilizzabili. Dopo di che l’intera banda si diresse verso il teatro.
Quella sera una compagnia di attori girovaghi aveva messo in scena il dram­ma "La morte di Sisara" ed il teatro si era andato riempiendo in ogni ordine di posti fin dalle diciannove, ora di inizio dello spettacolo; i palchi erano tutti occupati dalla migliore aristocrazia e borghesia cittadina.
All’inizio del secondo atto, all’apertura del sipario, gli spettatori ebbero la sgradita sorpresa di vedere sul palcoscenico alcuni masnadieri con le armi spianate verso la platea ed i palchi.
 
                                 

In mezzo a loro, ben piantato sulle gambe divaricate ed avvolto in un mantello scuro stava, con la schioppa armata, “un giovanotto di circa trent’anni, il volto pallido, una barbetta rada con mosca sotto il labbro inferiore, una mac­chia violacea come di polvere da sparo sotto l’occhio destro”. Così.  come descriveva una relazione della gendarmeria, dovette apparire ai cit­tadini atterriti la temuta immagine del Passatore.
Fra le grida ed i comprensibili strepiti colui che pareva il capo raccoman­dò la calma avvertendo che non sarebbe stato fatto nulla di male a chi avesse collaborato.
Estratto un foglietto dalle tasche della saccona, chiamato dal vano dei musicanti un tremulo lettore, gli fu dato da leggere ad alta voce. Il primo nome risuonò nel silenzio glaciale del teatro; era il primo di un lun­go elenco di possidenti che, chiamati ad alzarsi, venivano accompagnati uno alla vol­ta dal teatro alle loro case, dove erano costretti a consegnare ai brigan­ti scudi ed oggetti di valore. Ottenuto ciò che volevano i malandrini riconducevano in teatro il malcapitato e se ne ripartivano col successivo men­tre altri briganti, fra cui il Passatore, stavano sul palcoscenico dove ave­vano posto un tavolino e via via andavano ammucchiandovi la refurtiva.
Immaginarsi lo stato d'animo di coloro che sentivano scandire dalla voce timorosa del musicante il proprio nome! E fra costoro c’era anche Pellegrino Artusi, divenuto più tardi famoso per il suo libro di ricette gastronomiche, strada maestra per tutti i buongustai, che fu costretto al pari degli altri ad accompagnare alla casa paterna i briganti ed a conse­gnare loro tutti gli averi; non solo, ma la di lui sorella Geltrude, presa da incontrollabile terrore, fuggì urlando sui tetti di casa ed impazzì, morendo qualche tempo dopo. Fu l’unica vittima di questa incruenta invasione.
Si disse che molte donne fossero state violate. In realtà pare che solo una donna subì violenza quella notte da parte del Passatore e di un altro brigante non identificato. Era costei cameriera nella locanda del faenti­no Francesco Casella e a dire il vero, non fu ben chiaro se si trattasse pro­prio di violenza dato che stando ad una lettura -che oggi definiremmo maschilista-  la fantesca, di non più giovane età, subì con non annotata particolare resistenza l’interesse di cui era stata oggetto e vittima.
L’invasione si protrasse sin circa le undici e mezza, ora in cui il Pas­satore dette il segnale della ritirata. Uscirono dalla porta da cui era­no entrati "..in quaranta circa" disse il custode confermando la valuta­zione fatta del brigadiere della Forza. Tale numero era chiaramente det­tato dal motivo di non sfigurare di fronte alle superiori autorità e for­se anche dalla paura, visto che le concordi testimonianze degli altri cit­tadini confermano un numero di 12,13 banditi e non più; in realtà , dalla confessione resa poi da Antonio Farina, il primo della banda ad esser caduto nelle mani della Giustizia, risulta che in quella occasione i briganti erano in 15 compreso il capobanda.
Questa volta il Passatore l’aveva proprio fatta grossa; non si poteva più frapporre tempo, occorreva eliminare lui e la sua banda; ne andava del­l'onore dei gendarmi e della sicurezza di ogni paese delle Legazioni.
Il Capitano di gendarmeria Zambelli , che dirigeva le operazioni contro il brigantaggio nelle Romagne, ritenendo che il Pas­satore fosse troppo scaltro e le forze a disposizione insufficienti, ricorse così all’unica arma  che da sempre costituisce il mezzo per battere un avversario più leale o più forte o più astuto : il tradimento.
Ed è sul tradimento che si basa la sconfitta e la disfatta della banda, chè altrimenti assai difficilmente, quanto meno nel volgere di poco tempo, si sarebbe riusciti a liberarne le Legazioni.
Poste varie e consistenti taglie sul capo dei singoli briganti (la più alta era giunta a scudi 3000 per il Passatore), sfruttando la cupidigia che da sem­pre ha perduto anche grandi imprese e soprattutto la possibilità di evitare la condanna a morte in caso di determinanti contributi alle indagini, a seguito delle delazioni di due comprimari -Gaetano Morgagni di Forlì, detto Fagotto e di Giacomo Emaldi di Fusignano detto Lamelda- si venne alla cattura in una casa di campagna, nascosto dietro un grande tino, in una intercapedine di un muro, del primo anello della catena che avrebbe fatto cadere nelle mani della giustizia nel breve volgere di due mesi l’intera banda.
In quell'occasione cadde appunto nelle mani della Forza  Antonio Farina detto “Dumandone". Mentre il contadino che lo ospitava fu passato per le armi dopo due giorni, il sopraddetto Dumandone (!) intravvedendo una via di scampo alla morte sicura, chiese di poter raccontare tutto ciò che sa­peva. La sua richiesta fu accolta con comprensibile soddisfazione dal Maggiore Allai che conduceva le indagini. Nel volgere di pochi giorni furono arrestati quasi tutti i componenti della banda, tutte le "dritte" tutti i manutengoli, molti dei quali furono immediatamente fucilati.
Frattanto il Passatore sentendosi braccato vagava senza soste e senza più rifugi sicuri per le campagne accompagnato dal fido Giazzolo.
Trovato momentaneo ricovero in un capanno nei pressi di Russi e ferma­tosi per riposare fu visto da tal Vincenzo Querzola che corse ad avvisare il Governatore Antonio Felici. Immediatamente allarmati, partono alla volta del capanno un gruppo di sussidiari fra cui il milite Apollinare Fantini, un piccolo distaccamento di fanteria di linea pontificia al comando del Caporale Calandri nonché cinque gendarmi al comando del Brigadiere Achille Battistini.
Giunti nei pressi del ricovero, dopo una finta digressione il Brigadie­re Battistini bussa alla porta intimando di aprire. Una schioppettata accoglie la sua richiesta ed il Brigadiere cade al suolo; morirà dopo quattro giorni di sofferenze.
Anziché difendersi dall'interno i due briganti escono dal capan­no ed iniziano a sparare contro la Forza che riparata dietro agli alberi circostanti non subisce ulteriori perdite. Una schioppettata del sussidia­rlo Fantini colpisce invece il Passatore alla schiena ed il famigerato bandito crolla al suolo; Giazzolo invece, benché ferito, riesce a fuggire ed a porsi in salvo anche perché l’attenzione del drappello della Forza è tutta rivolta all’uomo steso a terra. Tanta ò la paura di lui o tanto l’odio ac­cumulato nei suoi confronti, che il Caporale Calandri gli si avvicina e men­tre Stuvanì impossibilitato a difendersi rantola al suolo gli punta la pistola alla nuca e fa fuoco.
Sul cadavere del Passatore si scatenò una guerra diplomatica poiché sia i sussidiari che i militi ne rivendicavano l’uccisione. L’ebbero vinta questi ultimi (anche perché ne andava dell’onore della milizia regolare di fronte a quella civile) ed il Passatore, portato dapprima a Imola che era il centro delle ope­razioni dirette contro di lui dal Capitano Zambelli, fu poi per ordine di quest’ultimo deposto su di un carretto e portato con adeguata scorta per tutte le piazze di Romagna affinché servisse di monito ai malintenzionati, dimostrasse l’efficacia della Forza e rincuorasse gli onesti cittadini.
Cosi finì, il 23 marzo 1851, la burrascosa vita di Stefano Felloni detto il Passatore. Ben oltre la sua breve esistenza sopravvisse però la leggenda che già lo circondava da vivo.
Con gli occhi della fantasia popolare, a tratti, riappare qua e là la sua immagine piantata  a gambe divaricate nel bel mezzo di una stradicciola di campagna, verso l’imbrunire, avvolta nel mantello scuro, col cappellaccio calcato sulla fronte, lo schioppo puntato.
C’è ancora chi in Romagna, se lo immagina se deve attraversare a piedi e di notte certi luoghi.
           

 

                                             LE ARMI della banda del Passatore


Data l’esigenza di poter disporre di più di un sol colpo, quasi tutti i briganti della banda erano armati di schioppe (doppiette) o quantomeno di più di un’arma;
In molte notificazioni relative a Stefano Pelloni ed alla sua banda si può notare infatti la postilla : "suole andare armato di schioppa a due canne (detta alla francese) e di pistola simile e lunga coltella'”
In due notificazioni relative al Passatore e diffuse nelle Legazioni di Ferrara e Ravenna, si parla appunto di schioppa a due canne, mentre nessuna specificazione in proposito danno le notificazioni edite nella legazione di Bologna, mentre in quella di Forlì si parla di moschetto, pistole, e stilo. Nella nota stampa dell'epoca il Passatore appare armato di schioppa alla Francese e così pure nelle descrizioni di testimoni e di rapinati, "quello con l'aspetto più gentile” è sempre armato di schioppa e mai, o quasi, di moschetto.
Il sottocapo Mattiazza (al secolo Francesco Babini, fucilato a Bologna il 6/11/1052) soleva andare armato di grossa spingarda a canna lunga, pistole e stilo.
Giuseppe Tasselli detto Giazzolo, fedele amico del Passatore è armato di "fucile alla tedesca" o di schioppa a cassa corta a quattro canne, di pisto­la a trombone e di stilo. Una schioppa a quattro canne non era certo cosa mol­to comune dalle nostre parti, tuttavia in Romagna si ha notizia che almeno due armatoli ne costruissero: Luigi Menichetti di Faenza (una sua stupenda arma datata 1861 è apparsa sul n.6 della rivista Diana Armi del giugno 1973) destinata al Re Vittorio Emanuele II , notoriamente accanito cacciatore. Anche i famosissimi fratelli Zanotti nella loro bottega della Bruciata di Lugo ne realizzarono avendosi infatti notizia  di altro pregevole fucile a quattro canne fabbricato da Giacinto Zanotti per il Re Vittorio Emanuele  un paio di anni dopo sì da potersi ritenere che queste particolari armi  avessero alle spalle una pur limitatissima diffusione proprio in terra di Romagna, dove venivano prodotte.
 
            

Il Tasselli, nativo di Barbiamo di Lugo, potrebbe così aver messo le mani durante qualche rapina su una di queste armi certo di proprietà di qualche nobile o possidente utilizzandola anche, come abbiamo visto, nella presa di Forlimpopoli.


  Su un esame-tipo circa 1’armamentario di 32 briganti che in tempi diversi furono al seguito del Passatore notiamo che 14 portavano una schioppa (fucile da caccia a due canne giustapposte), 2 portavano un fucile a tre canne, 2 un trombone, 2 uno scavezzo, 3 uno schioppo (fucile civile o militare ad una canna), 2 una spingarda (lungo fucile per la caccia nelle valli), 3 uno “stuzino alla tedesca”, ossia uno "stutzen, fucile rigato da caccia);  un solo brigante era in possesso di quel raro fucile a quattro canne, 3 portavano solo pistole; Di costo­ro 23 portavano anche pistole; 15 anche un coltellaccio e di tutti, ben 28 avevano più di un’arma. Nello specifico, 12 avevano ben 3 armi : fucile, pistola, stiletto.
Se ne deduce che in tale armamentario logicamente eterogeneo prevaleva­no, nel totale, le armi a più colpi , pistole a due canne e schioppe alla francese ; erano infatti queste le armi che con più facilità poteva­no essere reperite dato il loro uso diffuso (leggi permettendo) per difesa o per viaggio le prime e per caccia le seconde.
  Molto più rari i tromboni, armi certamente spaventevoli ma ad un sol colpo, men­tre le pistole a trombone sembrano più diffuse (4 su 32) anche perché accom­pagnate da altre armi. Qualche fortunato era riuscito a procurarsi una schioppa a tre canne (di probabile provenienza bresciana) ed il solo Giazzolo il famoso schioppo a quattro canne notato alla presa di Forlimpopoli.
 
                          

Coltellaccio “sciopa” (doppietta) e pistola a due canne: questo l’armamentario tipico dei briganti della banda del Passatore

 
Alcuni usano lo "stutzen" .fucile da caccia rigato di tipica estrazione austro-ger­manica (improbabile si trattasse del pesante fucile militare austriaco mod 1842, d’ordinanza) ma ritengo che per l’uso che se ne doveva fare non fosse l'arme più indicata. La migliore fra le armi lunghe e la preferita dai briganti era quindi la "sciòpa", la schioppa, la doppietta cha ancora tanto successo ha in Romagna fra i vec­chi cacciatori. Efficacissima quanto e più del trombone, con il vantaggio di un colpo in più a disposizione, robusta , adatta all’uso di campagna, era l’ideale per 1’agguato,1’assalto, la minaccia. Non necessitava di un gran tiratore posto che alle sue deficienze balistiche sopperiva la rosata di pallini eterogenei con cui poteva venir caricata.
Il secondo tipo di arma ad avere la preferenza dei briganti è la pistola, possibilmente a due canne,  facile da occultare e micidiale alle brevi distanze. Un centro di produzione era in Romagna la località di Montecodruzzo, nell’entroterra Cesenate; tipica la produzione di ottime pistole a canne sovrapposte molto apprezzate anche dai patrioti romagnoli.. Tipici della produzione di Montecodruzzo erano pure dei coltelli di varie dimensioni ed a lama pieghevole (con siste­ma simile a quello degli odierni coltelli a scatto) dal caratteristico manico in osso di forma inconsueta. Di solito però, il coltellaccio che si accoppia alla pistola nelle mani dei briganti è un coltello a lama fissa ,dai 15 ai 30 e più centimetri: certo un’arma convincente ed impressionante.
Altro firmaiolo fabbricante di ottime canne per doppiette era Freducci di Montebello. La caratteristica di tali canne è una serie di cerchi equidistan­ti in ottone, che, incorporati nel torcione, fasciano le canne per tutta la loro lunghezza. Spesso in tali armi non certo di gran pregio ma pur con un loro irresistibile fascino, si riutilizzavano batterie di doppiette ed a volte anche le canne, ottenendo così degli ibridi peraltro sempre funzionali.
Ciò si spiega in parte col principio di dover economizzare sui materiali utilizzando pezzi sfusi, ed in parte col fatto che numerosissime notifica­zioni tanto del Legato pontificio quanto dell’ Imperial Regio Comando milita­re Austriaco (non bastavano i papalini!) impedivano ai cittadini, tranne casi particolari, la detenzione di armi sotto comminatoria di pene durissime, col bel risultato così come avviene oggi, che gli onesti venivano disarmati a vantaggio di chi delle varie leggi e leggine grida o strilli vari, con licenza parlando, se ne frega altamente. Così, prima di esser costretti a consegnare un’arma se ne asportava la batteria o le canne sostituendole magari con canne scoppiate. Ecco così trovati i pezzi per costruire con poco un’arma nuova in barba alle astrusi­tà governative.
Non sembra invece che il trombone che così spesso si accoppia alla figura dei briganti, avesse fra questi un grosso successo. Probabilmente, al di là dell’opinione di chi ritiene che un trombone possa sparare di tutto senza risentirne, resta il fatto che sparato il primo ed unico colpo il trombone non po­teva servire gran ché in caso d’urgenza o di necessità di disporre di un secondo colpo: ecco quindi le ragione della prevalenza, a parte le su riportate ragioni di maggior reperibilità, delle doppiette e delle pistole a due canne, relativamente comuni per viaggio (se il porto era autorizzato) o per difesa domestica.
Di queste armi, quasi tutte sequestrate al momento della cattura dei sin­goli briganti e finite in magazzini militari o in qualche sconosciuta collezione privata  o distrutte, si è persa quasi ogni traccia documentata.
 
                   
Fucile austriaco modello Augustin, 1842 ; fucile pontificio da fanteria di linea , trombone, briquet da gendarmeria. Pistola romagnola a due canne sovrapposte, coltellaccio
 
Nella immagine che precede se ne mostrano alcune del tipo usato dai briganti di Romagna, fra canneti e valli nebbiose sotto le mura di castelli impassibili e silen­ziosi testimoni di ben altre gesta, per strade polverose ed assolate, fiancheggiate da campi ubertosi e generose vigne. Con armi non molto dissimili da queste per ben tre anni la banda del Passatore terrorizzò le legazioni e tenne in scacco truppe pontificie ed austriache invano sguinzagliate sulle sue tracce; anni densi di imprese che ancor oggi sanno di leggenda e che la popolazione, soprattutto quella rurale della bassa Romagna,  ebbe ancora vive per molti anni dopo la sua morte, protagoniste dei racconti dei più anziani intorno al focola­re, nelle notti d’inverno.
 

Gaetano D. Rossi


Nota: dopo il riconoscimento da parte del fratello, avvenuto nel carcere dell'Abbadia, il cadavere di Stefano Pelloni, detto il Passatore (1824-1851), ucciso nei pressi di Russi il 23 marzo 1851 fu sepolto in un campo sconsacrato all'esterno del recinto della Certosa di Bologna 

 


Le notizie su riportate sono principalmente tratte da: Briganti in Romagna, Giovanni Manzoni, Galeati Grafiche, Imola,1976 ; Fatti memorabili della banda del Passatore in terra di Romagna, Francesco Serantini, Edizioni del Girasole, 1973; Il rovescio della medaglia, Leonida Costa, F.lli Lega Editori, Faenza, 1976; Plinio Farini, Il Passatore,chi fu veramente e come morì, Ed. del Girasole, Ravenna,1976, e da testimonianze raccolte dall’Autore (nelle stesse zone ove imperversò la banda) quando propose a VGA TeleRimini di realizzare un documentario sulla Vita del Passatore, poi premiato con Menzione Speciale al festival delle Emittenti locali a Venezia, nel 1978.



         






Commenti